Una nuova scoperta che, anche in questo caso, potrebbe apportare una piccola correzione sui libri di storia, parliamo della terribile Peste nera quella che colpì l’intera Europa tra il 1347 e il 1352 e che uccise circa un terzo della popolazione del continente, un’epidemia che fu attribuita principalmente ai ratti e che oggi, dopo attenti studi, sembrerebbe esser stata conseguenza di ben altro si parla infatti di batteri nella realtà dei fatti, ma proviamo a ripercorrere quel periodo.
Le stime antiche e moderne delle vittime variano parecchio sul totale della popolazione, all’incirca dal 30% al 60%. Va tenuta presente anche una relativa incertezza sul numero degli abitanti dell’Europa in tale periodo. Furono cronisti danesi e svedesi a impiegare per primi il termine “morte nere” (dal latino atra mors, letteralmente “morte nera”, dove l’aggettivo ater va inteso con il significato di “triste, oscuro, atroce”) riferendolo alla peste del 1347-1353 per sottolineare il terrore e le devastazioni di tale epidemia.
Secondo gli storici, nell’ottobre 1347 la peste fece la sua comparsa nei porti del mar Mediterraneo, a Messina, a Costantinopoli e a Ragusa di Dalmazia. L’epidemia della peste fece la sua comparsa anche a Venezia, nota come la città del commercio, che intratteneva scambi di prodotti con l’estremo oriente.
A quei tempi si pensava che la peste venisse portata da gruppi marginali come le streghe e gli ebrei; questi ultimi erano da sempre perseguitati perché accusati di deicidio o regicidio, cioè dell’uccisione di Gesù considerato rispettivamente in quanto Dio e in quanto re mistico della società cristiana. Il fatto che la società ebraica e la società cristiana fossero in pratica reciprocamente separate facilitava le persecuzioni. Le streghe erano perseguitate poiché accusate di parteggiare per il demonio e di avere con questo rapporti carnali nel corso di rituali chiamati sabba, durante i quali tra l’altro avrebbero sacrificato bambini bevendo il loro sangue.
Finora si è supposto che in realtà il batterio della malattia fosse portato dai topi che viaggiavano a bordo delle navi e che – una volta approdate queste ultime – sbarcassero sulla terraferma liberando le pulci, uniche vettrici della malattia. Una volta appurato che tutto si muoveva e gravitava attorno alle navi e ai topi, nacque la precauzione di fare sostare per quaranta giorni le navi, con il loro equipaggio, al largo della laguna di Venezia, per appurare se ci fossero degli infetti. Da qui nacque il termine “quarantena”.
Ma ora la scienza arriva a ribaltare una certezza lunga secoli: all’origine delle virulente epidemie medievali di peste ci furono minuscoli parassiti dell’uomo, “Pulci e pidocchi corporali, non i ratti”.
A dirlo una ricerca congiunta delle università di Oslo e Ferrara: nello specifico, i ricercatori norvegesi e italiani hanno usato i dati esistenti sulla mortalità in nove città europee, dice il professor Nils Stenseth dell’università di Oslo alla Bbc, e li hanno confrontati con modelli simulati della diffusione della malattia in ciascuna città, “in modo da ricostruire la dinamica dello sviluppo del morbo”.
Stenseth e colleghi si sono concentrati su tre distinte possibilità: diffusione della peste attraverso i ratti; trasmissione aerea; pulci e pidocchi che vivono sulla pelle e sui vestiti delle persone. Dall’analisi dei dati è emerso che la Peste nera si diffuse così velocemente da non poter essere provocata dai ratti. Al massimo, suggeriscono gli studiosi, i roditori poterono avere una corresponsabilità, ma il “motore” principale della pandemia fu la scarsissima igiene personale che vigeva nel Medioevo.
“Il modello dei pidocchi si adatta meglio”, ha sottolineato l’autore principale dello studio, Nils Stenseth.
Lo studio, pubblicato sulla rivista britannica Proceedings of the National Academy of Science, ha principalmente valore storico: utilizzare la moderna comprensione del morbo per capire cosa avvenne durante una delle più devastanti pandemie di tutti i tempi.
“Ma comprendere il più possibile che cosa succede durante un’epidemia può aiutarci a ridurre la mortalità in futuro”, ha concluso il professore norvegese.