Essendo il nostro un paese democratico, in cui il diritto alla vita è uno dei principi cardine, non possiamo certo invocare la pena di morte, anche quando ci troviamo dinanzi ai crimini più efferati.
Eppure fa male leggere la cronaca quotidiana, quando in tanti non vengono puniti adeguatamente per i propri reati, ed anzi vengono lasciati liberi di fare ancora del male.
In altri paesi, invece, la giustizia sembra seguire il suo corso, senza perdere tempo e senza fare sconti.
In Bangladesh, ad esempio, 16 persone sono state condannate a morte per l’omicidio di Nusrat Jahan Rafi, studentessa di 19 anni bruciata viva il 6 aprile, alcuni giorni dopo aver denunciato per molestie sessuali il preside della scuola coranica che frequentava a Feni, nel sud-est del paese.
La sentenza di primo grado è arrivata al termine di uno dei processi più rapidi della storia del Paese.
La dinamica della sua morte era stata tanto assurda quando terribile. La 19enne, tornata a scuola per sostenere gli esami di fine anno, era stata portata con l’inganno sul tetto del palazzo scolastico. Dicendo “no” alla richiesta di ritirare la denuncia, alcune persone le avevano lanciato addosso della benzina prima di darle fuoco. A raccontare l’aggressione era stata la stessa ragazza durante il disperato trasporto in ospedale, dove malgrado le cure era morta dopo cinque giorni di agonia.
“Il verdetto dimostra che nessuno riuscirà a cavarsela con un omicidio in Bangladesh. Abbiamo lo stato di diritto”, ha dichiarato il procuratore Hafez Ahmed ai giornalisti dopo la sentenza, in un’aula affollatissima.
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